martedì 2 febbraio 2021

Per chi suona la campanella

Gennaio è il mese che, più di tutti gli altri 11 messi insieme, ha il potere manifesto di farti invecchiare alla velocità della luce. Il 1° gennaio sei lì, a letto, mezza nuda, a guardare il concerto di Capodanno con il Maestro Muti che smascella incontrollato a suon di polka e 30 giorni dopo pensi a quanto ti sembra lontano il Natale appena passato e cerchi la prima festa utile sul calendario: 14 febbraio, San Valentino.
Ora, non giudicatemi male, ma la necessità di festeggiare un martire romano del III° secolo mi esaltava da giovane quando, pura e casta, ricevevo in dono tubi di Baci Perugina, rose bianche e bigliettini sdolcinati. Ora mi esalterebbe solo se mi si proponesse un check up cardiologico gratuito o fosse considerata festa rossa da calendario con tanto di giorno di ferie pagato e grigliata selvaggia in balcone.

Sono vecchia e acida, inaridita oserei dire. Immaginate quindi il mio sguardo di terrore quando ho scoperto che Dustin Diamond, il noto "Screech" di Bayside School è morto a 44 anni. "Giovanissimo" sento dire, "Oh mio Dio ma sul serio, così giovane?" leggo. Io sono ancora lì con la mascella che tocca terra: io pensavo che Screech avesse superato i 50 anni da un pezzo, che fosse un pensionato spiaggiato a Palm Springs circondato da tettone in bikini e Mario Lopez a fargli da cameriere. 

44 anni. Giovane, per carità. Ma quando è successo esattamente che io ne avessi quasi 39? Quando ho appoggiato sul tavolo il succo di frutta della merenda del pomeriggio era il 1993 e guardavo Kelly e Zack cercare di pomiciare mentre Screech ne combinava una delle sue e dopo due secondi ecco il 2020, una pandemia, Tinder, e Screech che non riesce a finire un ciclo di chemio. Io e Screech che abbiamo 5 anni di differenza quando pensavo ci passasse in mezzo una vita intera.

Dustin Diamond era il solito attore di sit-com che, una volta finita la sit-com, si ritrova con le braghe rotte e il culo a terra. Ha fatto qualsiasi tipo di nefandezza: reality show di dubbio gusto, stand up comedy venuta male, altri reality, film in ruoli così marginali che nei titoli di coda era tipo "Ex allievo #1", bassista in un gruppo metal e, gradino più baso della discesa agli inferi di un ex attore, lottatore di Wrestling.

Ovunque sia passato ha portato discordia: il gruppo metal si è sciolto per "dissapori interni", in tutti i reality era il portatore di zizzania e non ne ha risparmiate nemmeno ai colleghi di Bayside School grazie al solito libro scandalo dove tutti i protagonisti hanno mille segreti sordidi e droga e sesso girano come lo stinco di maiale alla Sagra del porco di Vetulonia. Manco a dirlo giurò e spergiurò che a scrivere quelle pagine orrende e sconvenienti era stato un ghost writer che aveva estrapolato frasi fuori dal loro contesto. Certo. Certo. CERTO.

E, a proposito di porco, come ciliegina sulla torta ricordiamo il porno di Screech (ne sentivamo il bisogno? Io sinceramente sì): Screeched - Saved by the Smell è esattamente quello che pensate sia se conoscete la pratica del "Dirty Sanchez"(quando lo troverete su Google, non datemi la colpa di nulla).

Nonostante fosse un bugiardo (disse a Oprah che in realtà non era lui nel porno, ma un sosia. Certo. Certo. CERTO.) e un ingaggiatore di risse per cui ebbe pure guai con la giustizia, Dustin Diamond mi fa comunque pena e me la fa per due motivi in particolare.

Il primo è che era un fallito, come tutti noi, come la maggior parte di noi. Lui aveva toccato il successo, l'aveva perso, aveva speso ogni centesimo dei suoi guadagni, si era impelagato in ogni sorta di fallimento solo per non affogare in se stesso. E alla fine è morto come "quello che faceva Screech". Mentre i suoi ex colleghi commentano la sua morte con frasi struggenti dettate di fretta ai loro addetti stampa, il mondo lo ricorda con la faccina furba e pulita del ragazzino di Bayside School e continua a far finta di niente.

Il secondo è che Dustin Diamond aveva 5 anni più di me. 5 cazzo di anni più di me. Solo 5 anni più di me, che ancora penso di averne 25 e non ci trovo nulla di male perché sto bene con quello che sono ma devo fare i conti con quello che sto diventando. 

La lezione di oggi è quella di vivere la vostra vita con l'età che avete dentro, di guardare a quel succo di frutta che avete lasciato sul tavolo nel 1993 e di andare avanti lasciandoci sopra anche i rimpianti e i fallimenti, portandosi in tasca solo i ricordi e le facce di chi non ci ha mai deluso. Ora è il tempo di una birra in compagnia.


martedì 19 gennaio 2021

Sole, Sole... Solange - E siamo solo a gennaio

Spumeggianti questi albori del 2021.

Non dobbiamo negare di esserci arrivati con l'assoluta convinzione che il lockdown e il covid sarebbero spariti dal primo minuto dopo la mezzanotte del 31 dicembre. Anzi, più che "assoluta convinzione" parlerei di "disperata speranza".

E invece, permettete il francesismo, col cazzo. 

Siamo rinchiusi in zone che virano dal giallo al rosso, colori vibranti e accesi che potrebbero precipitare anche in un allegrissimo blu tenebra (ma prima avremmo una leggerissima transizione in viola e viola addobbo funebre mi dicono dalla regia) e siamo tutti irrimediabilmente irritati, scostanti, depressi. Personalmente assisto giornalmente a scenari scoraggianti: gente che si azzuffa per fare il vaccino (e ancora non era entrata a gamba tesa Sua Maestà Letizia Moratti e la distribuzione di brioche al popolo e vaccini all'aristocrazia, ora sì che si respira aria fresca di ancien régime), gente che dovrebbe fare il vaccino ma ha paura di cosa possa contenere perché tanto il covid lo curi con l'idrossiclorochina e quindi non lo fa (gente che di solito berrebbe il Gange. Gente a cui andrebbe servito il caffè di Sindona, francamente), gente che ha paura di respirarti accanto perché hai avuto il covid, gente che vive nel buio dello smart working ormai da un anno e tra poco si darà alle pitture rupestri sulle pareti della cucina.

Siamo a gennaio, la lotta al virus è lenta e impervia, il sole tramonta sempre alle 17 e fa un freddo cane: la depressione è dietro l'angolo.

Ci stiamo riscaldando le mani in questo inverno del nostro discontento, tra Renzi che ci fa vivere il brivido di una crisi di governo e la Meloni che dà del Barbapapà a Conte, stiamo discretamente aspettando il sole come Neffa, ma il nostro vero Sole ormai ci ha lasciati a brancolare nel buio dal 7 gennaio.

Solange, al secolo Paolo Bucinelli, era uno di quei sensitivi svolazzanti e sopra le righe che ci faceva compagnia negli anni '90, era riuscito anche a detronizzare il pesantissimo Divino Otelma che imperversava su Canale 5 quando la Cuccarini era solo una ballerina e non una sovranista e noi ballavamo "VOLA, CON QUANTO FIATO IN GOLAAA" tra un sofficino e una speedy pizza. 

Mentre Otelma si presentava con palandrane pacchiane e anelli rubati a mia nonna, Solange appariva leggero, con i capelli sparati come una delle Hologram, sempre allegro e allusivo. 

Il nostro eroe, dopo aver dato del pagliaccio al Divino O, si è pure battuto per i matrimoni gay lottando contro quel colosso di Angelino Alfano (quanti ricordi, mi è entrato un bruscolino nell'occhio) a colpi di abito bianco. E, a proposito di abito bianco, ricordiamo della profezia che fece alla Boschi, ovvero "ti troverai un marito, ma sarà di destra!" (tranquilli, Matteo Renzi è ancora felicemente sposato).

Ma attivismo a parte, Solange è nei nostri cuori - nel mio piccolo e arido, perlomeno - per un capolavoro della musica italiana: "Sole, Sole... Solange", il suon grande singolo del 2006.


La vostra vena polemica sta per esplodere dopo la visione di "SanPa" su Netflix e vorreste picchiare Red Ronnie con la videocassetta su cui avevate registrato l'apparizione di Britney Spears a "Roxy Bar"? No, cantatevi la strofa "endovene d'amore che ci forano il cuore/se alle volte ti sembro un po' strano/è solamente per fare casino!"

Nostalgia della ressa per entrare su un RyanAir per Tenerife? Vi mancano gli applausi dopo il perfetto atterraggio a Punta Raisi? Intonate fortissimo "Se ci pensi e mi credi/se con gli occhi tuoi vedi/apri il palmo e ti leggo la mano/siamo in volo e ti porto lontano..."

Soffrite per le chiusure delle palestre soprattutto perché avete dovuto abbandonare la storiella con quel meraviglioso manzo sudato che vi "aiutava" a fare gli addominali? Siete ancora runner nostalgici del primo lockdown e ricordate con gioia di quando le vostre performance miglioravano dopo le minacce dai balconi? Chiudete gli occhi e canticchiate "Appiccichiamo al nostro tempo i nostri cuori sudati/Scappiamo via...senza dimenticare/i battiti, i battiti, i battiti, i battiti".

Solange è tramontato il 7 gennaio 2021 e ancora non sappiamo perché, forse il cuore sudato non ha retto tutti quei battiti, chi lo sa.

La lezione di oggi è: aspettando il sole e una nuova alba, godiamoci quello che abbiamo, quello che ci dona gioia e ci rallegra, quello che ci confonde di piacere. 

"Sarà che non c'è il sole, Sarà che tutto sembra resti uguale, Sarà quel che sarà ma sono preso male, Ma nessuno chiama e non so chi chiamare"


giovedì 26 novembre 2020

Il rumore del cuore , la mano di Dio

 Il covid, alla fine, non mi ha ghermito. 

Proprio dal covid nasce questa storia, dalla noia del lockdown, dalle porte chiuse e dal 25 aprile passato a cantare "Bella Ciao" in casa, soli.

Ora, come vi raccontavo al quarto giorno di coronavirus, sono single. 

Ironico, questo blog è nato dalle ceneri di una relazione e ne ha vissuta un'altra durata 7 anni e naufragata in un altrettanto orrendo ottobre, quello 2019, quando il covid era ancora solo un pipistrello che presto sarebbe diventato una zuppa brodosa come quelle della Orogel (vedo dolorosamente sfumare le opportunità come influencer di zuppe).

Da quell'orrendo momento ho affrontato giornate costellate di pianti e rimpianti, ho dovuto imparare a convivere con me stessa e il pensiero di avere un gatto obeso, un lavoro di merda e una vita fallimentare. Tutto nella norma, comprese le sbandate sentimentali per uomini troppo concentrati su loro stessi e il loro piacere, le giornate passate a giustificare il mio fisico, le mie idee, le mie vergognose lacune. Ammettiamolo, impegnarsi a conoscere qualcuno di nuovo dopo quasi 14 anni di relazioni no-stop fa schifo, ci rende vulnerabili e cadiamo davanti al primo esemplare di persona che sa fare buon uso del congiuntivo, non ha strane abitudini feticiste che riguardino l'allattamento e soprattutto che si comporta in maniera normale e non come un debosciato a caso di Badoo.

Ed è qui che Maradona ci mette la mano.

Ad aprile, annoiata e frustrata dal lockdown, conosco online (ma non su Badoo, ci tengo a sottolinearlo, perché quel posto è come la gabbia delle scimmie allo zoo. Quando le scimmie urlano. Quando le scimmie si tirano la cacca. Quando le scimmie TI tirano la cacca) LUI, bello, simpatico, appassionato e partenopeo. Ama la fotografia e il cinema, ama la musica punk e viaggiare, si perde in frasi come "quando tutto questo sarà finito ti porto a Pompei" o peggio "ti porto una bottiglia di limoncello da Sorrento" (MAI prendermi in giro promettendomi alcolici gratis), LUI che abita a soli 7 km da me. E secondo voi cos'ho fatto io, stanca della solitudine ma irremovibile sul non cascare in questi patetici quanto falsissimi tentativi di rimorchio? Esatto, ci sono cascata, ho ceduto come Vittorio Sgarbi cede all'ira e all'essere trascinato fuori dalla Camera per emulare la Deposizione Borghese di Raffaello.

Dopo 6 mesi di corteggiamento telefonico, per non dire di peggio, finalmente consumiamo la nostra passione davanti ad un video di Ceccherini e Paci. E dal giorno dopo solo blandi convenevoli fino alla definitiva scomparsa tra le nebbie di un altro, questa volta freddissimo, lockdown. Pure durante il mio periodo covid il suo interessamento si palesava in faccine, mugugni e emoticon. EMOTICON (inserire bestemmia). Quello che a lui ho taciuto è la grandezza del mio cuore, che in quei 6 mesi aveva triplicato il proprio volume come nel video, mai troppo citato, di "Another Chance" di Roger Sanchez, dove una tipa gira con il suo cuore gigante per le strade di New York. 

Argentina - Inghilterra 1986: Diego Armando Maradona segna il goal del secolo, prima ancora beffa Shilton grazie ad una gelida manina che diventa la mano di Dio.

Io, così inglese nell'animo, così british nell'educazione e nelle scelte di vita, così umoralmente e sarcasticamente suddita di Sua Maestà umiliata da uno scugnizzo di Pompei che, prima di quella sera sul mio divano, mi aveva già dato tante di quelle buche da spezzarmi il cuore fino a sentirne chiaramente il rumore fatto di vetri rotti e singhiozzi da neonato: una volta mi diede buca per festeggiare l'onomastico, una volta si era scordato, un'altra... beh, non ricordo la scusa perché ero impegnata a prendermela sul divano mentre oscillavo televisivamente tra il trench del tenente Colombo e la simpatia di Whitney Houston in "Guardia del corpo" con una Peroni fredda stretta nella mano sinistra e le unghie conficcate nel palmo della destra.

Diego Armando Maradona muore il 25 novembre 2020, 15 anni esatti dopo la morte di George Best, quello che entrava ubriaco in campo, segnava, poi sveniva senza sensi sul campo. Diego dei miracoli, ché solo lui poteva avere una chiesa dedicata, la Chiesa di Maradona, e un altarino a Napoli dove i tifosi baciano un suo capello conservato in una teca. Diego il drogato recidivo amico di Lapo e Diego il rivoluzionario amico di Fidel e Chavez. Diego ammiratore del suo conterraneo Ernesto Guevara, Diego che evade il fisco italiano per 39 milioni di euro.

E ieri, per la prima volta in 6 mesi, ho sentito netto e distinto il rumore di un cuore che si spezzava a 7 km da casa mia. Istintivamente ho riso, ho portato una mano al cielo e ho salutato.

La lezione di oggi è: se non puoi essere Maradona, prova almeno a essere Pelé, altrimenti tornatene nel tuo campionato dilettanti e ricomincia da capo.


lunedì 12 ottobre 2020

Giusto in tempo per il Covid

 Penso sia arrivato il tanto temuto tempo del ritorno. 

Sono seduta a letto, il gatto sonnecchia ai miei piedi, io ho il Covid.

Sono quattro i giorni passati dalla chiamata dell'infermiera "Il tampone è positivo". Mentre mentalmente metabolizzavo la notizia, nelle mie orecchie ronzavano gli ultimi giorni, le ultime settimane, gli ultimi mesi.

Torno indietro a quel giorno di fine febbraio in cui il Nano, uno degli iconici personaggi che sono venuti a movimentare il mio periodo da single (questo è un altro lutto, ne parleremo più avanti che per ora il cuore si regge con un droplet infetto), mi disse che il coronavirus avrebbe fatto posticipare olimpiadi ed europei di calcio. La mia risposta fu corta come la sua statura: "Eh, che ti devo dire".

Da allora panificazione coatta e molesta, canti e urla dai balconi, maratone di film di Harry Potter, quarantene passate a tenersi compagnia fino quasi ad innamorarsi. Saremmo tornati migliori, più forti, più umili e pieni di amore.

Manco per il cazzo, scusate il francesismo.

Siamo tornati livorosi, spaventati, per nulla educati, cattivi e con gli occhi rivolti al fatturato.

Ci siamo scordati i camion pieni di bare, anzi, i peggiori di noi li hanno riempite di corpi di clandestini gridando al complotto mentre si abbassano la mascherina e usano i polmoni per urlare che sono in dittatura sanitaria. Gli auguro che reggano, i polmoni.

Gente che non crede che il coronavirus esista, che sfila in piazza, che tossisce su altra gente e giù di matte risate fin quando non finiscono intubati o da Barbara D'Urso. 

E ora me ne sto qui ad aspettare che mi chiami l'ASL per pianificare gli altri tamponi, non sento odori, non sento sapori, m'informo di come stanno i miei contatti, faccio videochiamate con gli amici che nel frattempo mi portano medicine e cibo e alcool. Non riesco a vedere un film per il troppo mal di testa, scrivere però mi svuota e per questo ho deciso di farvi un regalo nell'era del covid: il ritorno di questo spazio che vi vuole far divertire, riflettere e perché no, discutere.

La lezione di questo post è che si può morire di covid ed è meglio che iniziamo a ficcarcelo in testa prima che lui si ficchi dentro di noi. Io ormai ce l'ho dentro e per ora fa meno male della solitudine.

Appello all'ASL: mi potete chiamare please? Grazie

martedì 2 aprile 2019

Ars Moriendi goes Netflix: "After Life"

Ieri ho capito che i miei ormoni stanno avendo la meglio sul mio cervello, tutto grazie alla visione di "After Life", brillantissima serie con Ricky Gervais.

Innanzitutto fruibilissima a tutti, la trovate su Netflix, sono 6 puntate di quasi 27 minuti l'una e scivolano che è un piacere.
Ci addentriamo nella vita di Tony, vedovo inconsolabile di Lisa, morta di cancro, che lo culla con la sua voce tramite video vari che il poveretto guarda ininterrottamente sul suo portatile.
Intorno a Tony fluttuano Matt, il cognato, che tenta di consolarlo e allontanarlo dai propositi suicidi (che vengono puntualmente sventati dalla cagnetta Brandy) obbligandolo a lavorare per la gazzetta locale che produce articoli al limite del surreale su neonati somiglianti a Hitler o vecchietti che ricevono ben 5 biglietti di auguri simili, il collega Lenny antistress naturale di Tony, Sandy la nuova recluta della Tambury Gazzette che subito si affeziona al suo capo e Kath, collega petulante con una grande quanto inspiegabile passione per Kevin Hart.

Spesso il nostro eroe fugge dal lavoro per far visita al padre malato di alzheimer ospite di una casa di riposo (nei panni del padre di Tony uno splendido Walder Frey redivivo da Game of Thrones) dove incontra l'infermiera Emma (Ashley Jensen la mia "Agatha Raisin" o se preferite Christina di "Ugly Betty"). Altra tappa obbligata è il cimitero dove riposa Lisa: proprio su una panchina incontra Anne, vedova di Stan, di cui diventa subito amico. Sfortunatamente, per cercare sollievo, Tony si reca da uno psichiatra (Thoros di Myr appena tornato dalle terre oltre la Barriera) che umilia la categoria intera spifferando i segreti degli altri pazienti o litigando su Twitter mentre Tony gli apre il cuore.

Sulla strada del lavoro incontra spesso il nipotino George che gioca nel cortile della propria scuola, altre volte incappa nello spacciatore Julian, nella "professionista del sesso" Roxy o nel postino Pat.

Il viaggio di Tony nel dolore per la perdita di Lisa passa attraverso i video pieni di gioia e vita della coppia o quelli di raccomandazioni postmortem che la stessa Lisa lascia al compagno: sono tutti inni alla vita, al futuro e alla gioia ma annaspano nel vischiosissimo pantano dei sentimenti di Tony.
A volte è Anne che lo sprona ad andare avanti mentre gli occhi le si fanno lucidi ricordando il marito, altre volte è la perseveranza dell'affetto di Matt e la paura di perdere George che gli aprono gli occhi su quanto il cinismo stia avvelenando la sua vita, quella che resta dopo la perdita.

Riagguantato il diritto di essere felice, Tony chiede ad Emma di uscire per un caffè. 

Ci sono momenti di "After Life" che ti prendono il cuore, te lo stritolano e te lo buttano nel cestino come tutti i video di Lisa, soprattutto quando suggerisce a Tony di godersi la luce del sole finché può e lo dice mentre abbassa la testa rendendosi conto che per lei la luce sta per spegnersi, ci sono certi personaggi secondari come Julian il tossico che porta dentro un peso più grosso di noi, la rassegnazione, o come Anne che riesce a sempre ad avere la frase giusta per mandare avanti il dolore e spingerlo oltre, che rendono "After Life" un piccolo gioiello.

Ma più di tutti c'è Tony, c'è quel "preferirei essere con lei da nessuna parte che da qualche parte senza di lei", c'è quel senso di profonda tristezza che non può lasciarti indifferente, c'è un supereroe che combatte la sua guerra a suon di "Fanculo" e sfacciate verità.

Guardatevi "After Life" e godetevi la colonna sonora.

Ars Moriendi lo valuta 4 teschi su 5!

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martedì 12 marzo 2019

Alzando la cresta: Keith Flint

Ho sempre pensato che nei pittoreschi villaggi della campagna inglese vivessero personaggi come Miss Marple o tedesche bionde uscite dai romanzi di Rosamunde Pilcher.
Immaginavo la tranquillità interrotta solo da qualche Aston Martin impazzita guidata da milionari stanchi che si buttavano alle spalle la vecchia vita di città per cominciare a coltivare zucche vicino a qualche anziana megera, che di sicuro amava avvelenare i vicini invitandoli per il tea delle cinque.
Idilliache immagini di gare di giardinaggio, il vicario del posto che fa visita ai membri della comunità, cani da caccia insonnoliti e pub pieni di vecchi signori che commentano Liverpool - Manchester mentre bevono birra e s'immergono nei ricordi.
Ecco, questa è per me la campagna inglese.
L'ultima persona che pensi di trovarci è il cantante dei Prodigy, Keith Flint.

Invece eccolo lì, Keith, con i suoi otto cani a passeggio per le campagne dell'Essex, eccolo che fa jogging e saluta il vicino settantenne, il signor Rye, che sa bene che quando vede Keith correre è perché sta per iniziare un tour e il cantante vuole essere al massimo della sua forma fisica.
Poi c'è la signora Addison che sa che Keith è un grande amante degli animali, oltre ai cani, Jane, sa che casa Flint ospita una voliera con un sacco di uccellini e canarini.
Keith - dicono sempre i suoi amati vicini - salutava sempre, anche solo un rapido cenno con la mano, ma lo faceva, lui salutava tutti e tutti gli volevano bene.

Sembra una bella favola ma, nonostante i cani, gli uccellini e l'amore dei vicini, Keith si è messo una corda attorno al collo e si è impiccato.

Fermiamoci un attimo. Torniamo negli anni 90 in punta di piedi, cerchiamo di guardare il video di "Firestarter" senza cagarci addosso come i bambini vent'anni fa.
Ok, Keith Flint si muove come me dopo aver mangiato un panino col salame di una settimana fa che aveva un colorino giallo poco invitante, pure le espressioni facciali sembrano le mie di quando nel 1996 provavo a truccarmi con abbondante rossetto fucsia Deborah per poi specchiarmi e trovare riflesso Carlo Pistarino. Tutto nella norma, niente di terrificante a parte gli anni che sono passati, che ci hanno impoverito, che ci hanno fatto credere che annegare i propri problemi fosse possibile e fosse possibile farlo tenendogli la testa sotto un mare di birra aspettando che sparissero e smettessero di agitarci.


D'accordo, sono stati anni difficili per tutti, magari lo sono stati per noi giovani disadattati che fumavano mille sigarette fuori da qualche locale dove qualcuno ti aveva appena spezzato il cuore, ma come possono essere stati anni difficili per chi ha otto cani, una villa in campagna, un personal trainer e vicini affettuosi?
Per avere la spiegazione di tutto questo serve un altro come noi, uno che ha preceduto noi e Keith Flint: John Lydon, in arte "Johnny Rotten" voce e anima marcia dei Sex Pistols.

Johnny se ne fotte del personal trainer e di tutte le volte che il signor Rye salutava Keith, figuratevi quello che pensa della signora Jane e i canarini canterini del cazzo. 
Keith aveva il cuore spezzato.
Giuro.

Ho appena letto che Johnny Rotten ha dichiarato che dietro il suicidio di Keith Flint c'è un cuore spezzato.

La decisione della moglie Mayumi di divorziare era nell'aria da molto tempo, già da un anno era tutto finito. La casa di campagna andava venduta, i ricordi sciolti nell'acido delle proprie lacrime. Keith non si era ripreso dalla separazione con Mayumi, dolce May, che lo aveva tenuto alla larga dalle droghe (ma non da un personal trainer, maledizione quanto odio vedere le celebrità devastate che corrono dietro ad un palestrato) che lo aveva salvato, dolce May che adesso lo condannava alla disperazione.

E così Johnny Rotten si fa cicerone in questa storia di solitudine esclamando "Nessuno lo amava ed è stato lasciato solo, era a pezzi. Perché così tante persone sono state lasciate sole in questo settore?".
Già, perché?

Vedi Johnny, i suoi vicini adoravano Flint perché era uno di loro, senza fronzoli, senza pretese, non aveva neanche gli orecchini al naso, era solo un Gascoigne meno chiassoso, un po' bolso magari, ma non era l'anticristo che pensavano.

Era solo un uomo con il cuore rotto. 
Ed è raro che qualcuno se ne accorga, anche se riempi arene o stadi interi.

Allora meglio correre, allevare cani, salutare la gente per strada sperando di sembrare normale quando invece dentro hai un tunnel vuoto e silenzioso che si allarga ogni giorno di più, fino a mangiarti i pezzi di cuore che sono rimasti.

Le lezioni di oggi sono molteplici: mai giudicare un libro dalla copertina, mai giudicare un uomo dalla propria cresta, mai lasciare solo un uomo normale.




martedì 5 marzo 2019

Di tutti, proprio Dylan.

Tutto quello che vorrei scrivere è un laconico quanto arrogante "voi non potete capire".
In un certo senso è proprio così, voi non sapete che ruolo ha avuto Luke Perry nella mia disastratissima vita bucata.

Iniziamo dalla fine: 04 marzo 2019.
Oltre alla leggera nausea che mi accompagna quotidianamente quando mi reco al lavoro, oggi sento anche odore di guai. Sono troppo ottimista, i miei capelli troppo lunghi e morbidi, il sole già alto e spavaldo alle 06:50, qui c'è qualche casino all'orizzonte.
Tutto fila liscio fin quando non becco la mia collega nei corridoi del centro medico.
Mi guarda.
La guardo.
Sorridiamo.
Lei dice: "sai che è morto..."
A me si blocca il cuore
Lei riparte: "... il cantante dei Prodigy?"
Vaffanculo Daniela, vaffanculo. Dire queste cose mentre c'è Luke Perry vicino al baratro... Non si fa.
Somatizzo per un attimo, metabolizzo la notizia, con la mente fumo mille sigarette come facevo mentre nei peggiori posti che io abbia mai frequentato partiva "Breathe" o "Firestarter".
Tutto va bene. 

Capodanno 2000equalcosa, tombolata di fine anno.
Tutti pronti per la tombolata con premi orrendi. Io vinco a ripetizione lo stesso libro di Bill Gates su Bill Gates, vorrei barattare la mia vita in cambio di qualsiasi cosa piuttosto che avere quel maledetto volume tra i miei premi. All'improvviso un'anima pia e meravigliosa mi dona una T-shirt che illumina la mia vita e l'anno che sta per nascere: la maglietta ha sopra la faccia di Luke Perry, viene diretta dal fan club di Los Angeles e dall'anno 1992. Piango. Non me ne separerò mai. Sopravviverà a due traslochi, alle tarme e alle unghie del gatto. Sopravviverà anche a Luke stesso, ma io non potrò saperlo.


Data indefinita, forse 2001, io di ritorno dall'università.
Sono stanca e affamata, sono abbastanza traumatizzata dal fatto che io abbia iniziato un corso sulla conservazione dei beni culturali in quel di Ravenna, che in quanto a vitalità non batte per poco Silent Hill. Sto per raggiungere la cucina, con la punta del piede sinistro mi sono levata la scarpa destra, ho buttato da qualche parte il cappotto e ancor prima di aprire la porta della cucina accendo la tv. Mi appare Luke in una puntata di Beverly Hills 90210, non una di quelle vecchie, no, qui Dylan è all'università: viviamo insieme la sventura di essere matricole, in più lui deve pure sopportare Steve, il che mi sembra eroico in confronto all'ora di treno che mi devo sciroppare ogni mattina. Ed è arrapante come al solito. Dylan non Steve, OVVIAMENTE.
Ecco, non so se fosse la visione celestiale, la fame o la mestizia del pensiero di dover tornare a Ravenna per i prossimi millemila anni, fatto sta che crollo per terra all'istante come una pera cotta, svenuta. In 36 anni di vita ho sempre attribuito questo mio unico svenimento a Luke, a nient'altro. E voglio che rimanga così. Forse fu quello svenimento a farmi capire che Ravenna non faceva per me.

Una mattina qualsiasi, 1993, scuola.
Mi manca solo la testa di quel maledetto secchione con la voce nasale di Brandon e il culone di Andrea Zuckerman per finire l'album di figurine di "Beverly Hills 90210". Di Dylan le ho tutte, mi sono tenuta anche le doppie. Quelle non le darò MAI via, magari alla prima Brandon Lover che capita. Le conservo, le mie teste di Dylan, le guardo. Non mi lasciano nemmeno durante l'adolescenza. Dylan è il primo vero uomo che vedo, che mi piace, di cui mi innamoro. Non è di cartone come André di Lady Oscar, no Dylan è vero e il suo personaggio ha solo poche cadute di stile: farsi Kelly e smettere di bere. Non ho mai trovato il mio Dylan, ma l'ho sempre cercato. In compenso ho collezionato una serie notevole di Brandon e qualche Steve.

Una sera qualsiasi, 1993, casa mia.
Mia sorella si sta preparando per uscire, io sono sul lettone dei miei, sfoglio distratta una copia di "Glamour" ovviamente non mia. Che giornale di merda, solo vestiti, donne, nemmeno una foto di Dylan. Che voglio dire, Dylan è di sicuro il più figo di tutto il 1992 e del 1993, dovrebbe stare su tutti i giornali. Ma su quel cazzo di "Glamour" no. Mentre mia sorella se ne va io sono sovraeccitata: quella sera io e mio padre registriamo una puntata di "Beverly Hills 90210". Non che a lui freghi qualcosa, lui vuole solo capire come usare quell'aggeggio maledetto, io invece voglio fare quello che le ragazzine di 10 anni fanno più spesso: guardare mille volte le cose che amano fino a conoscerle a memoria. E quella è la puntata in cui Kelly e Brenda hanno lo stesso, splendido, vestito. La prima volta di Brenda e Dylan. Quella è LA puntata. E la ricordo a memoria.

Vita di merda, ci stai provando, te ne do atto.
Stai provando a togliermi la mia gioventù e il mio futuro frustandomi nel presente.
Hai portato via Luke, il mio tormentato Dylan, quello che non riusciva ad essere ridicolo recitando la parte di un ragazzo cool, il mio ornitologo gay in "Will e Grace", il mio Fred Andrews in "Riverdale"che mi ha fatto tanta compagnia durante la mia convalescenza post protesi. "Riverdale"... dove ti sparano proprio nell'ultima puntata della prima serie e io a momenti piango come una fontana.
Non ci sei riuscita, vita di merda, e adesso mi hai colpito dove fa più male, nei miei ricordi, nel primo amore ancor prima che sapessi quanto facesse schifo l'amore. Hai colpito nella devozione, nell'affetto esclusivo e impalpabile per qualcuno che non si conosce ma che si ama, hai colpito nel sogno e nell'ideale.

Ma non te la darò vinta nemmeno stavolta. Anche se fa più male.
La lezione di oggi è: ama quello che eri, ama quello che amavi e che non ti ha mai deluso o fatto male. Almeno per un giorno, quando sei triste. Non abbandonare i tuoi sogni, di carne e ossa o di puro spirito.
E ora scusate, ma glielo devo.

"Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforti e fra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.
Incrocino gli aereoplani lassù
e scrivano sul cielo il messaggio lui è morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano i guanti di tela nera.
Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed il mio Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l’amore fosse eterno: avevo torto.
Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
perché ormai nulla può giovare."

Addio Luke.